Portale della parrocchia Madonna del Carmine del Villaggio Brollo Solaro (MI)

 

 

STORIA DEL BROLLO

 

tratto da UNA CHIESETTA UN POPOLO UNA STORIA di Carla Gennari e Oscar Gerolin (vedi prefazione)

 

 

 

DOVE NASCEVA IL "BRUGO"

Arida terra

C'era, una volta, una desolata area incolta, di una cinquantina di ettari circa, che si estendeva tra Limbiate, Solaro, Ceriano Laghetto e Bovisio Masciago.

Più nota col termine "brughiera", attraversata dalla statale 527 Monza-Saronno, distava solo una ventina di km da Milano (direzione nord).

Vi crescevano spontaneamente arbusti, boschi di robinia dai fiori a grappolo, bianchi e profumati ed erica copiosa (o brugo) dai fiori rosei e dalle foglie minute; vi abbondavano i ricercati funghi; vi trovano asilo lepri e fagiani, orgogliosa preda dei cacciatori.

Il terreno argilloso rendeva improduttivo il territorio che, perciò, veniva intensamente sfruttato per la produzione di laterizi, cotti nelle fornaci locali.

Gli incendi erano stati frequenti negli anni precedenti ed avevano compromesso l'equilibrio naturale della brughiera.

Fu così che, alla vigilia della seconda guerra mondiale, i proprietari i conti Borromeo d'Adda, evidentemente certi che la terra fosse sterile, se ne liberarono al costo d'un pezzo di pane a favore di Giuseppe Brollo, già ricco commerciante di materiali ferrosi, forestiero.

 

E venne un uomo

A Giuseppe Brollo è legata, infatti, l'origine e la storia del nostro villaggio che, da lui appunto, prese nome.

Era nato a Ponte di Piave (Treviso) il 28/8/1907; terzogenito di 5 figli, figlio di contadini e contadino lui stesso come molti di noi di qualche anno fa.

Emigrò, come altri, in Francia per motivi di lavoro e probabilmente imparò "come sa di sale lo pane altrui". Al ritorno, infatti, trovato lavoro a Milano dove si era anche stabilito, per dieci anni rinuncia a tutto per risparmiare soldo su soldo, onde potersi mettere in proprio.

Era il 1939: Giuseppe Brollo possedeva una officina per la lavorazione della lamiera e un capitale di 45.000 lire. Ma ... la nostalgia ... gli mancava la terra sotto i piedi e le zolle tra le mani !

Ecco, allora le fughe nella brughiera di Solaro per riassaporare il profumo delle proprie radici.

E suoi diverranno 3 milioni e oltre di metri quadrati di groana, che acquistò per 6 centesimi il mq spendendo 1/3 del suo capitale.

Da quel momento, libero dal lavoro, iniziò la sua lotta contro quelle arcigne zolle, usando per dissodarle un vecchio trattore che, spesso, perdeva le ruote.

In un'intervista a "Oggi", nell'ottobre 1955, ebbe a ricordare: "Ero obbligato a fermarmi e a rincorrerle e ogni volta ne approfittavo per sbriciolare fra le dita quelle zolle e convincermi che non potevo aver sbagliato: sarebbe stata una buona terra".

Il primo anno offrì solo patate, ma in seguito grano, vigneti e alberi da frutto (ricordiamo a proposito via delle Vigne). Questo, appunto, il progetto iniziale: rendere fertile un terreno ritenuto improduttivo da tutti, un'impresa ardua"degna forse di un pazzo fuggito dal vicino manicomio di Mombello", si sosteneva in giro.

 

Prime esperienze

Si rende, perciò, necessario l'uso di braccia per realizzare il progetto, così nel dicembre del 1939 arriva dal Veneto la famiglia Marcat.

Tutto bosco e terreno arato di fresco ciò che trova e una fredda baracca di legno senza luce e acqua la dimora che la ospita per due anni, poi il nulla; a piedi lungo sentieri sterrati fino a Solaro a fare la spesa e a messa.

I primi tentativi di semina a base di avena erano falliti: gli 8 quintali sparsi avevano prodotto sì chicchi, ma vuoti.

Scarsa pure la coltivazione di patate: nonostante i 50 quintali interrati, erano marcite per la troppa acqua.

Ma le angurie? Crescevano così grosse che ce n'erano da vendere e da alimentare ulteriormente la fogna! Ma dopo la pioggia torna il sereno e fu la volta delle viti: si ottennero, finalmente, oltre 100 hl di vino!

E non finisce qui, anzi qui è il buon inizio.

Il signor Ivone, un bei giorno, semina una manciata di avena per le galline e la ricopre con un po' d'immondizia dal profumo cittadino (Milano scaricava, appunto, qui i suoi rifiuti).

Quel primo, forse, esempio di riciclaggio biologico partorì i suoi frutti e che frutti!

L'avena crebbe alta due metri!

E quando il "padrone" lo seppe?

Guarda Ivone, sacranon, se invece di lasciare quelle immondizie all'acqua, si mettevano nel terreno, guarda quanta avena si faceva!

Contemporaneamente una mandria di 20 mucche ruminava sorniona in un cascinotto di lamiera e si abbeveravacon l'acqua che la signora Santina Marcai portava abidoni dalla zona dell'attuale Vibrapac, mentre d'estate le vacche pascolavano quiete nella brughiera sotto la sua vigile sorveglianza.

Peccato che la fogna a volte ne avvelenava qualcuna.

Alternando così pastorizia e coltivazione il tempo trascorreva suo malgrado tra i frastuoni e gli echi della seconda guerra mondiale (ricordiamo il bombardamento della polveriera di Solaro il giorno di Natale del 1944).

Alle soglie del 1945 il villaggio Brollo era un abbozzo di comunità: due famiglie (si era aggiunta la famiglia Biasini) una fattoria (l'ancora presente casa colonica) e la fornace Croce.

 

"Al miracolo!" o il perché di una chiesa

Nel 1945 Giuseppe Brollo si ammala gravemente di febbre maltese. "Fui sul punto di morire, ma un giorno, nel delirio, mi apparve una Madonnina avvolta in un manto azzurro e mi guidò nella brughiera che, nonostante tutto non avevo domato. Sentivo a poco a poco ritornarmi le forze, mentre la sua voce mi esortava a compiere opere di bene con il denaro che guadagnavo" (da Oggi, ottobre 1955).

La guarigione avvenne rapida e con essa il senso di riconoscenza e gratitudine al "Divino", che si concretizzò nella realizzazione di una cappella nel luogo in cui il sogno lo aveva portato: la chiesetta della Madonna dei lavoratori.

Iniziano gli scavi: è il primo giugno del 1946, ma di questo parleremo più in là. Una volta pronta la cappella, andò alla ricerca di una statua della Madonna su misura della sua visione, ma dovette ordinarla e fu pronta nel giro di 8 giorni. La portò lui stesso a destinazione con un suo camion. Quando poi decise che era necessario il campanile, lo costruì speciale, usando i "profilati a freddo", cioè tralicci di lamiera che in pochi anni lo avevano arricchito. Ma una chiesa chiama gente e nella sua mente già si ideava un futuro paese. Chiamò per primi dal Veneto i suoi fratelli, gli zii con rispettive famiglie, quindi la prima casa civile: è il 1947 quando viene costruita la villa, proprio di fronte alla chiesetta, dove risiederanno i suoi genitori.

 

Prime vendite

II sogno di una fattoria modello comincia a ridimensionarsi, poiché, anche se cresciuta, rimane limitata la produttività della terra rispetto alle fatiche e alle attese. Inoltre, per il Brollo, molto bene vanno gli affari di "tipo industriale", tanto che la sua ditta "profilati a freddo" di Cinisello (1952) è in forte espansione e necessita di manodopera, che chiama direttamente dal Veneto.

Appunto ai dipendenti della ditta vengono venduti i primi appezzamenti di terreno, in lotti piccoli, dai 200 ai 400 mq, poiché la gente non ha denaro.

Sono concessi al prezzo iniziale di 350 lire circa il mq, con pagamento dilazionato in rate decennali (6% di interesse).

Non si tratta di un'operazione immobiliare vera e propria, piuttosto in questa agevolazione del padrone al dipendente si può leggere un senso paternalistico, un sentimento di appartenenza etnica.

Infatti, a differenza del "proprietario terriero", che in genere pensava a godersi i frutti dei suoi possedimenti, il "capitalista", cioè colui che aveva denaro sufficiente per impiantare e per far funzionare una fabbrica, era spinto non solo dal desiderio di accrescere le proprie ricchezze, ma anche di cimentarsi in nuove imprese, di sperimentare nuove tecniche e materiali e, soprattutto, di dimostrare le proprie capacità e il proprio valore e guadagnarsi così la stima e il rispetto degli altri, compresi, spesso, gli stessi suoi dipendenti. Va letto in questo senso il dono ad essi di una lambretta rossa e anche il dono successivo dell'asilo odierno alla comunità: doveva essere nelle intenzioni primarie un orfanotrofio, ma poiché la Provvidenza ci risparmiò da questa necessità, diventò scuola elementare, quindi asilo. Lo stesso discorso vale per la cessione in uso di un rustico agricolo (zona vili. del Sole) a Don Zeno Saltini fondatore di Nomadelfìa, per il recupero di giovani "disadattati": era l'anno 1952. Sarà merito loro la costruzione di capanne e strade di collegamento in mezzo alla brughiera fra vill. Brollo vero e proprio e il futuro villaggio del Sole (nome attribuito dall'amministrazione comunale di Limbiate).

 

Un binomio classico: casa – lavoro

Al bisogno primario di un lavoro ora soddisfatto, segue, o precede a volte, per l'immigrato il desiderio di una casa dove abitare, per sentirsi protetto, libero e indipendente. L'obiettivo della proprietà è, infatti, uno stimolo potente per progredire, un traguardo che impegna a migliorare il livello di vita della propria famiglia, che contribuisce a far avanzare le condizioni materiali e spirituali di una comunità.

Lo fu per Brollo prima, lo è ora per i suoi compaesani. Scatta cioè la molla per il secondo lavoro: di giorno in fabbrica o nei campi, la sera e le feste comandate nella costruzione delle case. Nella massima economicità di materiali certo, ma nella massima abbondanza di fatica: lavoravano donne e ragazzi, anche di notte, con le torce. Ci si improvvisava manovali, muratori, factotum e, poiché l'esperienza insegna, qualcuno continuerà a fare il costruttore di mestiere anche negli anni a seguire. Ci si aiutava tra parenti, amici, compaesani, si offriva ospitalità in casa, nelle cantine, nei rustici ai nuovi che sopraggiungevano, soprattutto in seguito all'alluvione del "Polesine" del 1951. Piccole, infatti, erano le case, 80-90 mq (un seminterrato e un piano rialzato, due, tre, locali più servizi in tutto), già insufficienti al loro nascere se si pensa che la famiglia veneta, in genere, era piuttosto numerosa. Ci si stringeva tuttavia, si condivideva con l'altro, con gli altri, ognuno faceva la sua parte secondo lo spirito dell'anima contadina, a quei tempi spesso semianalfabeta, ma portatrice della cultura degli autentici valori.

 

La società anonima Gran S. Bernardo

Le prime case del villaggio nascono in assenza di un piano regolatore, di opere stradali, fognarie.

Dopo la casa colonica e la prima abitazione civile del '47, nel '51 ne vengono costruite altre, due in via Isonzo quindi in via Fornace. Sono 16 nel 1952, ma solo nel 1953 vi sarà il boom edilizio, quando verranno costruite 27 case e tre negozi con annesse abitazioni, secondo un piano di lottizzazione presentato in comune, redatto dai geometri Dante Galli e Ermanno Volpati.

Risale infatti agli anni '50-'53 la prima grande ondata immigratoria del dopo guerra, che interesserà tutta la cintura milanese ed è composta da artigiani e operai specializzati provenienti dal centro nord- est. Sempre nel '53 viene fondata da Brollo la società Gran S. Bernardo, per una vera e propria lottizzazione e si occupa di un grosso investimento immobiliare: il complesso residenziale e commerciale in piazza Grandi (allora piazza Grande) per un totale di 34 vani e comprendente bar, macelleria, latteria - gelateria.

Ne è componente ed esecutore Piccinato Paolo, giunto dal Veneto nel '45, muratore, intuisce le grandi possibilità di sviluppo che Brollo può offrire.

E poiché ne sposa la nipote, entra di diritto nella famiglia e diventa suo principale collaboratore. Pure venditore di materiali edili, riceve l'incarico di vendere il terreno a singoli privati, contratta il prezzo, stende il contratto, disegna la pianta, inoltra la pratica al Comune... Incamera inoltre un consistente numero di lotti a titolo di ricompensa per la sua attività di curatore degli interessi della società e costruisce case che poi vende a chi ha fretta di avere una abitazione, o affitta a chi sta costruendo in proprio.

Sono numerose queste costruzioni e per esse si avvale di 5-6 operai fissi e di altri a mezza giornata come secondo lavoro. Rapida era l'edificazione data la semplice tipologia delle case; ciò permetteva di godere della legge Tupini che concedeva l'esenzione dalle tasse sugli immobili per 25 anni se venivano realizzate nel biennio 1949-1951, prolungata poi al ventennio successivo. La rapidità era favorita anche dal fatto che tutto avveniva in famiglia: Brollo vendeva Piccinato costruiva. Nonostante questa operazione fondiaria vera e propria è corretto ricordare le agevolazioni concesse agli acquirenti, per venire incontro alle esigenze e alle difficoltà dell'immigrato.

 

Autogestione

La comunità primordiale del villaggio Brollo è nella sua struttura e organizzazione la proiezione della tipica famiglia patriarcale, come lo era quella originaria, caratterizzante la società rurale, contadina. La filosofia del "fai da te", dell'autogestione si evidenzia, appunto, con la costituzione del "Consorzio per la produzione e la gestione delle opere di urbanizzazione", cui partecipavano per contratto gli acquirenti dei lotti. E il venditore o chi per esso, che produce e gestisce le opere di urbanizzazione e i servizi: fognatura, acqua, luce, manutenzione stradale ... L'acquirente paga una tassa predeterminata, lascia certe distanze dai confini ecc... Ecco un esempio testuale di contratto del 1952: "l'acquirente dovrà abbandonare a sede stradale una striscia di terreno, che verrà a formare la sede di nuove strade, che verranno sistemate a cura e a spese della Società Gran S. Bernardo e verranno in seguito mantenute da un consorzio di tutti gli utenti". E un altro del 1962: "Si è riservato inoltre al venditore il diritto di sistemare suddette strade, impianti di fogna- tura, condotte di acqua potabile e cavi per l'elettricità od altro... Tutte le opere che il venditore si è impegnato di fare, ad esecuzione avvenuta, saranno mantenute da tutti gli utenti in proporzione alla superficie di terreno acquistato, in rapporto al complesso degli utenti ed ognuno si è obbligato di accettare il deliberato della maggioranza". Il consorzio funzionerà a pieno ritmo per una decina di anni e non si occuperà solo della gestione dei servizi, ma anche di iniziative "culturali". Ne è un esempio l'organizzazione della festa patronale, una sorta di sagra delle tradizioni contadine importate dai paesi d'origine. Ritorneremo sull'argomento più dettagliatamente.

Tutto sommato ci piace questo aspetto sociale e aggregante del Consorzio, per una comunità nascente, per degli immigrati che vogliono sentirsi a casa loro in un territorio nuovo, che intendono rendere familiare. Oltretutto le amministrazioni comunali sono latenti, anzi sarà proprio il loro intervento, soprattutto Limbiate, a determinare nel 1962 la fine di un organismo ritenuto "illegale organo di pianificazione territoriale e di riscossione di illeciti balzelli" e altro.

 

La famiglia patriarcale

Come prima detto, anche nelle famiglie d'origine, del resto, il capostipite decideva tutto: il lavoro, gli acquisti, le vendite; curava i rapporti sociali, insegnava ai giovani il mestiere, organizzava svariate forme di divertimento durante il lungo inverno ecc.

Una funzione la sua, unita ad una grossa responsabilità, necessaria anzi indispensabile per una pacifica convivenza. La famiglia, infatti, era numerosa, una famiglia, allargata, multipla, con più coppie di coniugi, con una schiera di figli, fratelli, parenti tutti sottoposti all'autorità del capo famiglia.

E affinché una tale struttura potesse funzionare, doveva essere o diventare una comunità di lavoro e di produzione, in cui ognuno svolgeva compiti ben precisi. Tutti, cioè, dovevano contribuire al benessere domestico attraverso la coltivazione dei campi, la cura delle greggi la mungitura, la fabbricazione degli strumenti di lavoro ecc. E la donna, sottoposta all'autorità del padre e del marito, attendeva a lavori umili e gravosi: alla casa, ai figli(sempre tanti), agli anziani e spesso ai campi e alle bestie. Ecco la proiezione delle radici d'origine sotto il nuovo albero nascente, la comunità chiusa e autogestita della nostra gente brollese. Era così un tempo lontano, quella che germogliò e si ramificò attorno alla chiesetta Madonna dei lavoratori: erano gli anni '50.

 

La stagione dei mattoni

Aveva inizio a marzo la stagione dei mattoni e terminava a settembre. Nella fornace Croce, di cui rimangono tracce alla fine dell'abitato di Brollo, sul lato destro della statale per Mombello, lavoravano un'ottantina tra adulti e ragazzi (30% questi ultimi), tutti in regola. Ai giovani era destinata la pulizia, la manutenzione, la riparazione; agli adulti, invece, la produzione vera e propria.

Divisi in due squadre, ognuno con un suo specifico compito sequenziale, il 1 ° gruppo iniziava con lo scavo dell'argilla, il suo trasporto, il rimpasto tramite una vite elicoidale senza fine, dosaggio dell'acqua, stampaggio, taglio in singoli pezzi e il loro trasporto su un treno di carrelli, fino alle gambette, su cui venivano sistemati a lisca di pesce per farli asciugare. Erano simili a palchetti coperti da terriccio le gambette, accostati l'un l'altro come le viti nei fìlari e dotati di stuoia. Capitava, infatti, che nel bei mezzo della notte, quando tutti dormivano nell'abbraccio di Orfeo, arrivasse improvviso un temporale. Era, quindi, un corri corri generale ad abbassare le stuoie per proteggere i mattoni che lì rimanevano per 8-10 giorni. Entrava a questo punto in gioco la 2° squadra che ritirava i mattoni per farli cuocere nei forni a carbone, alla temperatura di 1200 gradi centigradi. Ancora bollenti, si sfornavano e si caricavano o direttamente sui camion o venivano accatastati direttamente nelle vicinanze.

Se ne producevano 30-40 mila al giorno per una paga di 70 - 80.000 lire mensili.

 

Aveva solo 15 anni!

I ragazzi, invece, lavoravano per 30-33.000 lire al mese e questo a lui non andava giù. Era uno dei ragazzi addetti alla manutenzione ed aveva solo 15 anni. Faceva brillare gli occhi e agiva rapido di mani, perciò sapeva fare di tutto. Godeva con gli altri della mensa interna e del dormitorio comune e, ultimato il lavoro giornaliero, la fucina scaldava per tutti l'acqua per il bagno collettivo, che si svolgeva nel forno caldo, dove erano stati cotti i mattoni.

Un certo prurito inferiore, tuttavia, gli rimaneva sempre appiccicato, soprattutto a fine mese al momento della paga: 33.000 lire da mandare alla famiglia rimasta nel Veneto, troppo poco!

Scatta l'orgoglio e la voglia di crescere; il ragazzo comincia a sentirsi uomo e tale vuole essere considerato. Esige un lavoro di maggior responsabilità o più faticoso: gli fanno troppo gola le 80.000 lire dei grandi, sente su di sé le necessità dei suoi familiari. Un bel giorno decide così il grande salto: chiede al direttore di lavorare a cottimo, a contratto. È un tonfo umiliante: una risata a crepapelle, che sa molto di sarcasmo è la risposta che ottiene.

Ma intanto il seme era stato gettato e radicava nell'animo del superiore. Dopo alcuni giorni germogliò: il ragazzo era stato accolto nella lista dei grandi, era un cottimista, poteva lavorare di più, avrebbe guadagnato meglio. Nessuno gli toglierà più le 10-12 ore al giorno di duro lavoro, curvo con le reni al sole, mentre scaricava blocchi di 4 mattoni per volta dai carrelli alle gambette.

E mentre i mattoni si prosciugavano al sole, all'ombra si gonfiava la busta paga.

Lui era diventato orgogliosamente uomo. La mamma ne sarebbe stata fiera.

 

Giri di valzer

Come risulta evidente dalle pagine precedenti abbiamo aperto l'album dei ricordi della nostra gente e poiché gli spaccati di vita che ne emergono sono molteplici e divertenti, ci piace occuparcene ancora un po'; forse qualche immagine è di rito ancora oggi.

Sono circa gli anni '50-'60.

Consolidati sono, ormai, i rapporti sociali e rafforzato è il sentimento di appartenenza (al villaggio), da cui sono nati i legami di affetto e solidarietà e per cui ciascuno condivide le idee, gli interessi, i comportamenti degli altri. Non tanto e non solo nelle attività del costruire, del lavorare, del faticare, ma in nome di un altro bisogno naturale e primario come quello di comunicare emozioni e speranze. Si cerca la compagnia degli altri, non solo le donne per lavare i panni al lavatoio, magari di Domenica, e per raccogliersi in chiesetta nella recita del rosario, ma per il gusto di stare insieme e insieme divertirsi. Ecco allora le squillanti note di tromba di Rico Brollo echeggiare nel cortile della casa colonica, fra l'applauso della gente. Oppure il richiamo al bar di un calice di bianco fra una partita a carte e un'altra, o ancora la magia della prima e unica televisione ammaliatrice di giovani e vecchi, là sistemata. Pure le camminate o biciclettate di ragazzi e ragazze diretti al cinema di Mombello, Limbiate, Saronno. Ma il gusto del ballo è il massimo. Già, sovente, si partiva ballerini dal paese natio e i figli prendevano dal padre (o dalle madri), ma ci si poteva anche diventare.

È certo, comunque, che le prove venivano fatte al chiuso delle mura domestiche, per evitare brutte figure in pubblico. Anche un manico di scopa, a volte andava bene come cavaliere. Si raggiungeva la balera di Saronno, magari il "promesso" portando sulla canna della bici la fidanzata, ma il più delle volte si organizzavano le serate danzanti in privato.

Vi erano a proposito alcune famiglie di ballerini, come i Bianco di via Fornace, i Bellomo di via dell'Assunta, gli Sclabas di via Lunga che organizzavano i festini.

Era necessario prenotarsi versando una certa somma che serviva per pagare il fisarmonicista e comprendeva pure la consumazione: biscotti e torta fatti in casa e un buon bicchiere di vino offerti dagli ospitanti o dai singoli partecipanti.

Così le sere, soprattutto le lunghe sere estive, volavano tra giri di valzer, tanghi, e mazurche e ne godeva l'anima e il cuore.

 

La mano della "tosa"

E innegabile la necessità di norme di comportamento, d'uso e di costume ogni volta che si costituisce un gruppo sociale, proprio perché essendo condivise da tutti, o dai più, permettono il rispetto reciproco, l'ordine nel vivere, il rafforzamento di sentirsi parte viva di un tutto, di una comunità. Ne deriva che ogni stagione della vita ha i suoi ritmi e i suoi riti anche se diversificati all'interno delle varie etnie e pur soggetti a trasformazione e a cambiamento lungo il corso degli anni.

Così, mentre il bei cielo stava a guardare o il freddo pungente dell'inverno sferzava loro il viso, i giovani in odore di matrimonio si potevano incontrare per scambiare quattro chiacchiere. Stare fuori casa di lei, significava essere sotto la tutela e lo sguardo vigile dei genitori, ma anche che l'approccio sarebbe potuto spontaneamente sfumare. Affinché la cosa diventasse seria, ufficiale, il giovane doveva entrare in casa della ragazza attraverso l'espletamento di un rito: chiedere al futuro suocero la mano della figlia. Grande agitazione negli animi, nell'aria e in famiglia.

La madre concordava col marito il momento del ricevimento, quindi con la figlia preparava torta e biscotti per celebrare l'incontro.

Ma non sempre le ciambelle escono col buco, così poteva succedere quanto stiamo per raccontare.

"Mi presentai in casa di lei tutto emozionato, ma il suocero non mi degnò di attenzione: era troppo preso dall'ascolto di un programma radiofonico". Possiamo immaginare l'imbarazzo generale: visi arrossati da una parte, volti sbiancati dall'altra. Sappiamo che i dolci vennero, comunque, consumati, la gola almeno addolcita, mentre alla suocera toccò nuovamente far l'anticamera col marito per fissare un altro appuntamento.

"Tremavo come una foglia, quando mi presentai la seconda volta. E dopo i soliti convenevoli di circostanza, mi rivolsi al suocero: - Vorrei chiedere la mano della vostra tosa ed entrare se accettate, in casa; io avrei intenzioni serie". Questa volta l'interlocutore rispose all'ospite: "Guarda, io non voglio casini, guarda tu se vai d'accordo, che sia una cosa seria e definitiva.”

"Se hai voglia siediti, lì ci sono le bottiglie, tutta roba mia" (si intende produzione propria).

Spiccio, spiccio, il rito era concluso, il fidanzamento reso ufficiale.

Non più o non solo la complicità delle stelle agli incontri dei due giovani, certamente gradito il tepore del focolare nelle rigide sere invernali. Solo ora il giovanotto avrebbe potuto offrire un passaggio alla fidanzata sulla canna della sua bici, destinazione Saronno, per un film o un giro di liscio.

 

Il vestito della festa

Come un po' ovunque in quegli anni, anche al Brollo alcune famiglie erano state colpite da una miseria nera, il pezzo di pane sudato e consumato fino all'ultima briciola, il vestito rattoppato, ridotto nelle misure per i ragazzi in crescita, abbondante da perdercisi, a volte, per i piccoli che lo avevano fatto proprio. Fortunati i primi figli: loro, di tanto in tanto, si potevano esibire nel vestito nuovo, ma i minori vestivano i panni dismessi e rattoppati dei maggiorenni. Per la rivincita bisognava invocare le grandi feste come la Pasqua, il Natale e al villaggio diventò una signora festa la celebrazione della Madonna della chiesetta. Era l'occasione per il vestito nuovo. Quante mamme e nonne si improvvisavano sarte e quante figlie imparavano a misurare, tagliare, imbastire,attaccar bottoni. La necessità aguzza l'ingegno; bastava a volte un colpo d'occhio per stabilire misure, quantità di stoffa, modello possibile. Gli orli alti, le maniche lunghe: dovevano potersi allungare le gonne e i pantaloni quando i ragazzi crescevano. Erano persino belli quei bimbi rimessi a nuovo e il vestito sarebbe rimasto per la festa, per le domeniche a venire. Andare in chiesa esigeva un certo decoro, buon gusto, rispetto.

Anche da queste piccole cose trasluceva il senso religioso che riempiva gli animi della gente semplice.

Atteggiamenti e comportamenti che sanno di sensibilità e di intelligenza.

E quanta devozione per quella Madonna della grotta!

Il suo nome è Maria

È ancora splendida nel suo lungo abito bianco cosparso di stelle.

L'usura del tempo non ha lasciato traccia di contaminazione; candido il colore, intatte le pieghe.

Un ampio manto turchese la ripara dal freddo della grotta.

Non una ruga sul volto regolare, liscio.

Il capo chino, lo sguardo vivo che brilla d'azzurro,

rivolto alla terra che giace ai suoi piedi.

Braccia e mani aperte, tese all'invito, al contatto, all'abbraccio: "Io sono qui, ora, per tè, per voi".

Un'aerea corona di stelle le cinge il capo; un infido serpente soggiace ai suoi piedi.

Sullo sfondo, bruni colori di un'arida terra, solcati dalla fatica di braccia umane, che qui hanno costruito la loro vita.

E i grigi sassi, alla base dislocati, non hanno pretese: troppo semplici, friabili, comuni.

Eppure stanno bene lì dove sono.

Forse noi, ciascuno di noi siamo uno di loro.

Godiamo della vigile presenza, della materna protezione della Madonna dei Lavoratori, faro di luce nel buio della nicchia.

Nata nel 1946, ha 50 anni, ma non li dimostra, anzi, più la guardi più ti sembra bella: Maria è il suo nome.

In lei sono custoditi i segreti della nostra vita, le nostre suppliche ha spesso esaudito, le nostre lacrime asciugato, la saggezza del suo vivere continua a elargire.

A lei la nostra lode, la nostra gratitudine, a noi la sua materna amicizia.

 

Profumo di festa

In piazza Grande (ora Achille Grandi) i lavori proseguivano a ritmo serrato, poiché 1'8 settembre era alle porte e la ricorrenza della nascita di Maria era la data stabilita per l'inaugurazione della chiesetta. (I lavori di scavo erano iniziati nel mese di giugno da alcuni nipoti di Brollo "col pie e con la pala", cioè a mano, poi proseguiti dall'impresa Grassi di Limbiate su progetto del geometra Galli di Varedo).

Così non doveva essere, tuttavia; solo qualche giorno di ritardo è vero, ma il grande evento coincise con il 15 settembre 1946.

Era la prima festa "patronale" del villaggio Brollo.

Bandierine di carta multicolore ondeggiavano in piazza nella brezza settembrina: erano l'omaggio, il frutto del fervente impegno di ragazzi e ragazze, radunati già da alcuni mesi sul solaio-granaio della casa colonica, a lavorar di forbici e colla.

Gli adulti, intanto, avevano disposto bancarelle con varia mercanzia, eretto il palo della cuccagna, allestito ilgioco delle pignatte, sistemate le gabbie dondolanti, le giostre a catena, il tiro a segno: esche di richiamo per un folto pubblico proveniente dai paesi limitrofi, per il quale era stato organizzato un pullman di servizio.

Monsignore Paolo Cattorini di Solaro celebrò la prima S. Messa nella chiesetta dedicata alla Madonna dei Lavoratori, coadiuvato da altri sacerdoti.

La festa era iniziata e proseguì tra lazzi e schiamazzi per quasi una settimana.

Una sera anche il fato ci mise il suo zampino. I ritardatari del tiro a segno fecero mezzanotte, così sotto la nebbia delle ore notturne, o meglio sotto i postumi della baldoria, sortirono un'idea geniale: avviarono la giostra a catena e vi salirono col proprietario. Via, si parte, si gira, si gira, si gira e ... Il tempo trascorreva veloce e lento, lento e veloce, tanto che le risate divennero urla nella notte, grida, invocazioni d'aiuto. Qualcuno stava male, ma nessuno poteva fermare la giostra.

Che la Madonna abbia colto l'occasione per il suo primo intervento? Dopo tre o quattro ore, un collega del proprietario si sciolse dal sonno, intuì e riuscì a decifrare l'S.O.S. e ad inviare rapido la risposta di salvataggio.

 

L'ultima domenica di Maggio

Fu l'inizio di una tradizione che si rinnova anche ai giorni nostri, pur se con le modifiche e le novità occorse durante i cinquant'anni trascorsi. La data della celebrazione fu spostata più volte, poiché sembrava che la pioggia a catinelle fosse l'ospite fissa non desiderata.

Successivamente, durante il periodo dell'industrializzazione e del benessere economico, la gente cominciava a sentir odore di ferie, di esodo, quindi scarsa divenne la partecipazione.

Si decise così, questa volta definitivamente, per l'ultima Domenica di maggio, data che vige tuttora. La messa in chiesetta, allora e per decenni proprietà privata, veniva celebrata solo occasionalmente, dai frati Cappuccini del convento di via Piave di Milano, mentre dal 1956 iniziarono la loro opera i Sacerdoti dell'istituto Maria Immacolata di Saronno, per cui la messa era domenicale, fino all'arrivo del primo Parroco (1958: Don Ludovico Cerri ).

Risale a quell'anno 1956 la prima festa con processione attraverso le vie del paese.

La statua della Madonna è issata su un camion camuffato da fresche fronde e verdi felci. Le fanno corona angeli viventi, acciambellati ai suoi piedi, nel loro abito bianco; bianca la corona di fiori tra i capelli, bianche le ali cartonate sulle spalle.

Sono i bambini che hanno ricevuto la prima S. Comunione.

Ammirano estasiati la Madonna, con mani giunte e occhi sgranati: devozione sì, ma pure una sofferta sorpresa pare esprimano a causa di quei nastri azzurri che stringono al collo Maria, tesi verso il basso per darle solidità durante il viaggio.

Un'interminabile processione si snoda lungo le vie, alternando preghiere e canti mariani ai prorompenti intervalli musicali della banda, invitata a solennizzare la lieta ricorrenza.

E alle luci che sfavillano per le strade e lungo il periplo della chiesetta sormontata da un'altrettanta luminosa stella, si aggiungono i fuochi artificiali: girandole, zampilli, cascate esplodono la sera in un abbraccio incandescente di luci e di colori che allietano grandi e piccini.

 

Per un pezzo di cielo

E uno spicchio di cielo stellato si adagiò sulla volta della chiesetta.

Era l'anno '47 quando un pittore, anche lui di nome Giuseppe, iniziò a dipingere navata e cripta, coadiuvato da un ragazzo di soli 13 anni, col suo papa. Ad una ad una apparivano le stelle ogni qual volta lo stampo si imprimeva sulla parete: una stella moderna con un foro centrale. Al ragazzo si illuminava il viso dalla gioia al loro concretizzarsi. Non sentiva la fatica del lavoro, nonostante si protraesse fino a notte: aveva imparato a fare la malta, a intonacare, a mescolare i colori ed ora tentava di imitare il pittore.

Certo non mancavano le interruzioni; soprattutto quando l'attempato artista esigeva il suo vizio alla portata di mano: fumava il sigaro.

Toccava al ragazzo andare a Mombello a fare rifornimento e tutto sommato poteva essere considerato uno svago. Ma il Latel lo spediva a comprare i sigari uno per volta e durante il giorno se ne fumava ben 5.

Troppi passi da fare, o pedalate, per poter piacere alle ragazzine, tanto che un giorno decise di comprarli tutti assieme, fingendo però di allontanarsi ad ogni richiesta. La furbizia non durò a lungo e non piacque al signor Giuseppe, pittore di Milano.

Il ragazzo, però, le sue 33.000 lire al mese se le meritava, comunque. Anzi, il commendatore lo premiava ogni quindici giorni con altre 1.500 lire, per cui con un mensile così consistente poté comprarsi il motorino Motom.

Intanto la chiesetta aveva cambiato volto con quel cielo stellato catapultato sulle sue pareti, arricchite da una serie di sacre immagini.

Qualcosa, tuttavia, non doveva aver funzionato alla perfezione durante i lavori, probabilmente a causa dell'umidità dell'intonaco, considerato che nel 1949 molti dipinti vennero rifatti o ripassati.

Ma di questo si parlerà più approfonditamente e più tecnicamente nelle pagine seguenti.



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